"I capelli più biondi che si possano immaginare", esclama Lord Byron dopo averne trafugato uno dal ricciolo di Lucrezia Borgia, riemerso da una lettera dell'epistolario da lei intrattenuto per sedici anni con Pietro Bembo, allora giovane e dotto umanista. Figlia del futuro papa Alessandro VI, maritata con alcune tra le casate più potenti dell'epoca - gli Sforza, gli Aragona e infine gli Este - la vita di Lucrezia Borgia è stata narrata da scrittori, filosofi, storici nella logica ottocentesca di un feuilleton fondato su infamie create ad arte nel Cinquecento per fornire l'immagine di una donna sanguinaria, dissoluta, incestuosa, avvelenatrice, succube nell'accettare ogni corruzione.
Un mito popolare alimentato dalla tragedia in prosa di Victor Hugo (1833) e animato dalle note musicali di Gaetano Donizetti (1855), che hanno fatto il destino letterario e postumo di Lucrezia Borgia essere ben più crudele e ingiusto di tutte le sopraffazioni subite in vita. Al contrario di quanto avvenuto per Isabella d'Este, la cui capacità di strutturazione della propria immagine ha dato vita a un'agiografia del tutto incoerente con carattere e realtà storica. Narrare in parallelo la vita di Lucrezia Borgia e quella di Isabella d'Este significa raccontare il farsi del Rinascimento italiano provando ad andare oltre gli stereotipi che ci legano a un'eredità ottocentesca complessa da superare.