La Lunga notte del ’43 (Florestano Vancini) di Antonella Guarnieri,
sta in Enciclopedia del cinema ferrarese a cura di Stefano Muroni, Ferrara città del cinema, 2021
C’è stato un periodo nella storia del cinema italiano all’interno del quale numerosi racconti e romanzi di importanti autori sono diventati opere cinematografiche: gli anni ’50 hanno visto, infatti, l’adattamento di testi letterari dove il regista, gli sceneggiatori, l’autore hanno lavorato a stretto contatto per costruire l’adattamento o comunque si sono confrontati per migliorarne ed arricchirne la qualità, portando, ognuno, la propria esperienza personale ed arricchendo e contemporaneizzando il racconto.
“La lunga notte del ‘43”, del regista Floretano Vancini, che vinse il premio opera prima alla 21° mostra del Cinema di Venezia, si basa su di un soggetto tratto liberamente dal racconto di Giorgio Bassani “Una notte del ‘43”, contenuto nelle “Cinque storie ferraresi” con il quale l’autore vinse il premio Strega nel 1956.
Il regista della “Lunga notte del ‘43” Florestano Vancini,in una pausa delle riprese del film, all’interno del vecchio cinema Apollo di Ferrara. Archivio fotografico MRR
Florestano Vancini, nonostante il film fosse tratto liberamente dal racconto di Bassani e nonostante il regista potesse avvalersi del ricordo personale e diretto della strage e della visione dei corpi lasciati davanti al muretto del Castello a monito dei ferraresi, intrattenne un dialogo intenso con Giorgio Bassani.
I due ferraresi si incontrarono spesso a Roma dove discussero dell’adattamento e dove Giorgio Bassani suggerì a Vancini il nome di Pier Paolo Pasolini tra gli sceneggiatori del film.
L’opera conclusa piacque a Bassani, anche se, era evidente che diversi erano gli elementi di differenziazione rispetto al racconto dello scrittore estense: primo tra tutti il titolo che ne mutava fortemente il senso, da “Una notte del ’43”, una terribile notte qualsiasi per un ebreo ormai abituato al terrore ed alla persecuzione sin dal 1938, anno della promulgazione delle leggi razziste, a “La lunga notte del ’43”, una lunga terribile notte che terrorizzò i ferraresi, tutti i ferraresi, che si trovarono a scrutare da dietro le serrande, silenziosi ed attoniti, le scorribande dei fascisti che a piedi o sui camion si erano impadroniti della città, dopo che si era sparsa la notizia del ritrovamento del cadavere del federale fascista. “La lunga notte” sarebbe, peraltro, diventata una espressione usata frequentemente, nei decenni successivi, per delineare momenti drammatici e cruciali della storia del nostro Paese.
Bassani ripeté più volte di apprezzare il film, soprattutto in relazione alla descrizione storicamente attendibile delle modalità in cui era stata effettuata la strage e, soprattutto, perché Vancini, aveva addebitato la strage a chi effettivamente l’aveva messa in atto e cioè le brigate nere fasciste e non i tedeschi, come più volte negli anni ’50 si era tentato di far credere alla pubblica opinione, per sollevare gli italiani da una strage orrenda che inaugurò il terrore del biennio 1943-1945 con l’uccisioni di undici civile che, era ben chiaro a chi perpetrò la strage, nulla avevano a che fare con l’omicidio del reggente della federazione fascista.
Il film venne girato tra gli studi di Cinecittà, dove venne ricostruito con grande precisione il Castello estense, e la città, ampli spazi e scorci che trovarono una dimensione ancora più spettacolare grazie alla fotografia di Carlo Di Palma, uno dei massimi direttori della fotografia italiani che lavorò con grandi registi italiani, basti ricordare, tra i tanti, Visconti, Rossellini, Pontecorvo, Antonioni, Bertolucci, ma anche, e in più occasioni, con Woody Allen.
La pellicola, che pure racconta la storia d’amore tra Anna, la bella e sfortunata moglie di Pino Barillari, il farmacista paralizzato dalla sifilide, testimone muto della strage da dietro alla finestra dalla quale era abituato a guardare il mondo nel quale non poteva più vivere, e Franco, il figlio di una delle vittime dell’eccidio, nascostosi, come tanti giovani, dopo l’8 settembre, l’armistizio e l’invasione tedesca.
La triste storia d’amore fa da sfondo ad una città incredula che, dopo l’uccisione del federale fascista, assiste attonita all’occupazione da parte dei brigatisti neri mandati a Ferrara dal segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini per compiere la strage.
Chiunque abbia visto il film non dimentica le immagini di questi giovani che, cantando a squarciagola le canzoni fasciste che promettono la morte a tutti gli oppositori, percorrono in lungo ed in largo il centro della città ed anzi le incamera nella propria memoria, quasi fossero un vissuto personale indelebile.
I protagonisti principali del film Gabriele Ferzetti e Belinda Lee, in attesa del ciak. Archivio Fotografico MRR
Nella visione di Vancini appare centrale la volontà di farsi memoria e di contrastare l’oblio degli eventi drammatici a cui il fascismo sottopose Ferrara e l’Italia, del quale lo stesso Franco, tornato nella città estense dopo alcuni anni, con la moglie e con il figlio, diventa un simbolo tragico, stringendo la mano a Carlo Aretusi, “Sciagura”, l’ex gerarca fascista che causò la morte del padre e che, nel film, si lascia intendere fosse il mandante dell’assassinio del federale.
Un film importante per la storia del cinema italiano, al punto da essere trai i 100 che, all’interno “Della giornata degli autori” della mostra del Cinema di Venezia del 2008, vennero segnalati come pellicole che dal 1942 al 1978 hanno cambiato la Memoria del Paese.
Si tratta certo di un riconoscimento importante per un regista che della ricostruzione storica oggettiva aveva un vero e proprio culto, considerando questo il modo migliore per tramandare ai posteri gli accadimenti del passato, soprattutto quelli che il potere aveva sempre cercato di rimuovere.
Alla meta di settembre del 1943, infatti, il fascismo ferrarese era tornato al potere, dopo la fuga di tanti dei personaggi di spicco della dittatura che aveva fatto seguito al colpo di stato del 25 luglio ed all’arresto di Mussolini; in novembre il fascismo della Repubblica Sociale Italiana (RSI) manifestava già tutta la prepotenza e la propensione alla violenza che lo avrebbe caratterizzato sino alla sconfitta del 25 aprile 1945. Seppure usando come copertura i tedeschi che avevano invaso il centro – nord e senza i quali i fascisti non sarebbero mai riusciti a riprendere il potere, tra l’ottobre e il novembre 1943, erano stati tanti gli arresti sia di oppositori politici sia di ebrei che sarebbero stati al più presto condotti nei campi di concentramento, perpetrati dai brigatisti neri estensi.
Dopo il 25 luglio 1943 e l’arresto di Mussolini, la popolazione italiana, come del resto quella ferrarese aveva sperato nella fine della guerra ed in un futuro di pace e di libertà che la RSI aveva cancellato repentinamente.
La mattina del 15 novembre, come tanti ferraresi, Vancini si trovò a passare per Corso Roma, mentre si recava a scuola: la scena che si trovò davanti fu drammatica, sconvolgente, indimenticabile.
Di fronte al muretto del Castello estense giacevano i corpi, straziati dai mitra, di otto ferraresi e la voce che correva era che ci fossero altri morti in altre parti della città. Militi fascisti facevano la guardia ai cadaveri con l’evidente compito di impedire che i parenti delle vittime si avvicinassero e che i corpi venissero spostati, oltre che di mostrare alla popolazione terrorizzata quei cadaveri straziati dai mitra. Rimasero lì, come stracci vecchi abbandonati al freddo di novembre, per ore e fu solo l’intervento di Monsignor Ruggero Bovelli, Arcivescovo della città estense, ad ottenere che la tragica rappresentazione avesse fine e i corpi venissero tolti dalla strada.
Erano stati colpiti, in tutto, undici cittadini ferraresi, antifascisti ed ebrei, oltre ad un giovane che tornava dal lavoro, colpevole di non essersi fermato all’alt dei brigatisti neri.
L’eccidio era stato voluto dal capo della provincia, e futuro segretario federale del PFR estense, Enrico Vezzalini per rappresaglia contro gli ignoti che, la sera tra il 13 e il 14 novembre 1943, avevano ucciso Igino Ghisellini, reggente della Federazione fascista di Ferrara.
Vezzalini era stato inviato a Ferrara insieme al Console delle milizia fascista Giovan Battista Riggio e ai Brigatisti neri di altre province limitrofe, da Alessandro Pavolini, che era stato raggiunto dalla notizia dell’uccisione del Federale a Verona, durante il congresso fondativo del partito fascista repubblicano.
Gli undici uomini, era evidente anche a Vezzalini ed ai suoi complici, non avevano nulla a che fare con l’uccisione del federale: si trattò in realtà della prima rappresaglia di civili della storia del biennio resistenziale, oltre che, pare certo, della prima uccisione di italiani ebrei che nei decenni successivi venne considerata come il vero e proprio inizio della guerra civile che insanguinò l’Italia tra il 1943 e il 1945. Avversata, addirittura, come mi confermarono i documenti negli anni successivi, dagli stessi ufficiali della
Wehrmacht che erano di stanza proprio al Castello estense e redarguirono pesantemente i fascisti per l’accaduto.
Quel novembre 1943, anzi il 15 novembre 1943, divenne centrale nella vita di tanti ferraresi, forse della maggioranza, ma per intellettuali del calibro di Giorgio Bassani e di Florestano Vancini, rappresentò una vera e propria svolta politica, intellettuale, poetica.
Vancini, che, come mi disse più volte, era cresciuto antifascista, venne molto colpito dalla tragedia umana che si trovò così, all’improvviso, davanti agli occhi e ancora di più dall’atteggiamento sfrontato e privo di pietà umana esibito dai militi delle brigate nere fasciste.
Certo, come lui stesso mi raccontò nel 1993 quando ebbi la fortuna di conoscerlo, ciò che vide quel giorno lo condizionò pesantemente e lo convinse ad avvicinarsi, seppur così giovane, al movimento resistenziale, così come lo sconvolse la folla di cittadini silenziosi ed a capo chino che nei giorni successivi sfilarono davanti alla sede del PFR per iscriversi al partito. Del resto, a monito di tutto il paese occupato, per disincentivare quanti avessero intenzione di combattere i fascisti e i loro alleati occupanti, i giornali dell’Italia occupata, commentando la strage di civili, avevano scritto “Ferrarizzare l’Italia!”.
Quelle immagini, quella storia di persone e di un’intera città gli rimasero dentro e le portò con sé per anni. Per questo raccolse informazioni, testimonianze: avrebbe voluto raccontare quella storia, voleva che fosse il più possibile veritiera, anche se, in quegli anni, gli storici non avevano ancora potuto consultare i documenti, secretati per decenni: le immagini, impresse nella retina, nel cervello, nel cuore di un uomo intelligente e profondamente empatico, lavorarono per mesi, per anni, determinando un modo di vedere, di pensare quella che sarebbe diventata la trasposizione cinematografica della realtà storica vissuta dal regista e dalla sua città.
La protagonista del film Belinda Lee, studia la propria parte, in attesa del ciack. Archivio fotografico MRR
Frutto di questa drammatica esperienza personale è il film, che verrà alla luce nel 1960, accolto con entusiasmo alla mostra del Cinema di Venezia dove vincerà il premio opera prima, che, nella propria ricostruzione, accoglieva la lettura popolare degli eventi ed attribuiva l’uccisione del federale repubblicano di Ferrara ad una non improbabile, dato i rapporti tutt’altro che sereni all’interno del fascismo tra le differenti fazioni appurati dagli studi, faida di partito.
Interpretazione a lungo accettata dalla gran parte della popolazione e degli storici. Si trattò, è evidente, di un’esperienza che egli volle trasferire nelle modalità di costruzione del film e che doveva poggiare saldamente le basi, secondo la volontà del regista, sullo studio delle testimonianze e, dove possibile, dei documenti che dovevano restituire all’opera cinematografica un forte spessore di oggettività storica e di veridicità.
Per comprendere l’importanza del concetto di “verità” storica, Vancini mi raccontò, e raccontò più volte in pubblico, che non aveva un buon rapporto con il potere politico in genere, ma che per poter raccontare quello che realmente accadde davanti al Muretto del Castello estense durante “lunga notte”, dovette aspettare un governo di centro – sinistra, perché i democristiani di destra e gli ex fascisti che li appoggiavano, si opponevano in maniera molto forte a che venisse raccontato, come effettivamente era stato, che l’uccisione degli undici civili fosse da addebitarsi ai fascisti, i brigatisti neri e non, come quei partiti avrebbero voluto, ai tedeschi, che dovevano essere passati per i cattivi, il capro espiatorio che avrebbe eternato il mito degli “italiani brava gente”. “E pensare, mi disse, che tentarono di convincermi promettendomi che, se avessi messo i soldati tedeschi al posto dei brigatisti neri, mi avrebbero omaggiato di un cast hollywoodiano, ma io ero deciso, volevo essere fedele alla storia e attesi sino al 1960”.
La “verità” del racconto degli accadimenti della “lunga notte”, per altro, fu uno degli aspetti del film maggiormente apprezzati da Giorgio Bassani.
Ma alla metà degli anni ’80, principalmente in ambito partigiano, cominciano a circolare voci secondo le quali, in realtà, l’uccisione di Ghisellini doveva essere ricondotta ad un’azione della Resistenza che si stava organizzando, cosa che, seppi in seguito da Vancini, aveva stimolato in lui, l’istinto fortissimo di impegnarsi in una vera e propria ricerca storica che gli consentisse di chiarire il più possibile, tramite i documenti e le testimonianze comparati, cosa poteva essere accaduto quel 13 novembre 1943 a Ferrara.
Nel 1990 mi ero laureata in storia a Bologna con una tesi sulla RSI e la “Lunga notte” di Ferrara era una sorta di fissazione che portavo con me sin da quando, bambina, la mamma per spiegarmi perché non volesse che io camminassi sul marciapiede accanto al muretto del Castello, decise di farmi vedere il film che nel 1960 aveva reso famoso Vancini “La lunga notte del ‘43”.
Le immagini in bianco e nero, Ferrara terrorizzata, piegata a quei loschi individui, anch’essi certo percorsi da un senso insinuante di disfatta, che cercavano di esorcizzare attraverso un atteggiamento volgare, sfrontato, se non violento, il gelo che percorreva quegli uomini tutti senza un futuro, quei corpi di uomini senza colpa alcuna, se non di non essere dalla parte che il fascismo definiva “giusta”, segnarono profondamente il mio sentire di bambina.
Cercare di trovare una soluzione alla diatriba che ormai da decenni opponeva storici, appassionati e chi voleva strumentalizzare a fini politici la vicenda e che trovava il suo centro nella determinazione di chi avesse ucciso il federale fascista di Ferrara Igino Ghisellini, un gruppo di antifascisti – partigiani o invece qualcuno di interno al PFR, era diventato un obiettivo incessante per me, anche perché avrebbe consentito di comprendere con maggiore chiarezza la portata della politica di terrore voluta dal segretario del PFR Alessandro Pavolini e da Mussolini già dall’ottobre del 1943.
Il clima sul set, mentre si organizzano le riprese. Archivio Fotografico MRR
Nelle numerose, e spesso proficue, settimane trascorse a Roma, nel corso di anni, alla ricerca di documenti presso l’Archivio Centrale dello Stato, vera e propria miniera per gli storici, molte erano state le persone con le quali avevo dialogato e mi ero confrontata a proposito dell’”affare Ghisellini”, un argomento che, è inutile negarlo, il film di Vancini, che lo aveva raccontato ucciso per una faida di partito, aveva non poco contribuito a rendere famoso.
Fu Vancini a cercarmi, perché all’Archivio Centrale gli avevano detto che una giovane ferrarese stava facendo ricerche su quell’argomento.
Pochi giorni dopo Florestano Vancini mi chiamava al telefono: una voce unica, indimenticabile, quel tono rauco da grande fumatore, quell’impasto caldo e comunicativo, capace di accorciare immediatamente le distanze e di metterti a tuo agio.
Ci incontrammo a Roma, in un bar di piazza della Repubblica e mi trovai di fronte un signore altissimo e con grandi occhi chiari espressivi e sommamente intelligenti. Ci sedemmo e cominciammo a parlare, fu davvero semplice sin dall’inizio dialogare con lui perché questo signore che aveva fatto documentari e film di grande rilievo, un intellettuale che aveva collaborato e ancora collaborava con i più importanti personaggi della cultura del nostro paese, che aveva fatto lavorare con sé tanti grandi attori, che aveva girato il mondo, possedeva un’apertura mentale eccezionale ed una gentilezza ed una capacità di accoglienza davvero uniche.
Parlammo tre ore di seguito, scoprii col tempo che sarebbero state decine e decine le volte in cui questo sarebbe accaduto, era un uomo molto vivace e possedeva un’intelligenza fortemente analitica, senza farsi mancare un’innegabile capacità di sintesi, che gli consentiva di raggiungere con semplicità i propri obbiettivi. Rimasi molto affascinata dal suo eloquio e scoprii con grande piacere ed un po’ di stupore, che egli era, naturalmente, portato all’analisi storica dei fatti.
Dopo avere parlato lungamente per due volte a Roma e diverse volte al telefono, dopo cena, sino ad ora tarda, circa un mese dopo, Vancini venne a Ferrara e mi disse che aveva deciso, e che si affidava a me perché io provassi a ricostruire ciò che era accaduta in quei momenti tanto convulsi.
Cominciò così un rapporto di grande intensità intellettuale: Florestano si confrontò con me sui singoli aspetti che più lo avevano colpito della versione che voleva Ghisellini fosse stato ucciso dai partigiani. Parlammo a lungo delle strumentalizzazioni politiche che caratterizzarono nei decenni quella vicenda: da una parte i fascisti e le destre estreme volevano che ad uccidere fossero stati i partigiani, per addebitare così, a loro parere, ai partigiani “comunisti”, come li definivano, la strage compiuta davanti al Muretto del Castello, senza tener in nessun conto di essere stati loro con l’aiuto dei loro alleati occupanti, ad aver nuovamente imposto all’Italia del centro – nord una dittatura feroce; dall’altra i comunisti e gli antifascisti che, addebitando l’uccisione del federale ad una faida interna al PFR, volevano rendere ancora più crudele e terribile la strage dell’alba del 15 novembre 1943.
Parlavamo con una grande apertura mentale, entrambi antifascisti, volevamo con tutte le nostre forze uscire da una lettura di parte, volevamo cercare, invece, di capire cosa poteva essere accaduto realmente per restituire alla nostra città una lettura quanto più possibile veritiera di quei giorni drammatici.
Florestano era un uomo di grande onestà intellettuale e dopo poche chiacchierate mi esortò ad andare avanti con grande forza, senza paure “perché da parte mia – mi disse – non c’è alcuna visione preconcetta. Non voglio che venga confermato ciò che descrissi nel mio film, seppure quella allora, allo stato delle conoscenze, apparisse la lettura più veritiera; vorrei, invece, che la ricerca ci avvicinasse ad un chiarimento di ciò che accadde, almeno ad una descrizione il più possibile ricca di elementi di quanto avveniva a Ferrara in quei mesi che portavano alla fine del 1943”.
Mi colpì molto questa sua grande volontà di capire, accettando anche di mettere in discussione, in nome della scientificità storica, l’interpretazione che aveva proposto in un film che lo aveva reso famoso e che lo aveva fatto entrare nella storia del cinema.
Compresi da queste lunghe chiacchierate che Florestano coltivava una profonda passione per la storia, che la storia era centrale nei suoi film e che il regista la coltivava con una volontà di studioso approfondendola e accrescendo la propria conoscenza attraverso letture, ricerche documentarie e di testimonianze.
A questo e alla grande capacità di indagare con sensibilità e discrezione l’animo degli esseri umani prendono vita i suoi film che raccontano principalmente le vicende degli uomini che, seppur paiono essere il sottofondo della storia con la S maiuscola, ne sono, in realtà gli artefici principali.
Florestano Vancini con i tecnici e le maestranze durante la preparazione della scena da girare. Archivio Fotografico MRR